Muoversi 4 2021
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LA TRANSIZIONE ENERGETICA NON PASSA SOLO PER LA DOMANDA

LA TRANSIZIONE ENERGETICA NON PASSA SOLO PER LA DOMANDA

di Enrico Mariutti

Enrico Mariutti

Presidente Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie

Ad agosto, per la prima volta, nel mercato europeo le vendite di auto elettriche/ibride hanno superato quelle dei veicoli diesel. Contemporaneamente, la Commissione Europea valuta, come nel caso del “Fit for 55”, l’introduzione di limiti draconiani al tetto delle emissioni per i nuovi veicoli che, almeno in teoria, dovrebbero mettere fuori legge l’auto termica in Europa entro il 2030.

Insomma, sembra che il vecchio continente abbia deciso di intraprendere senza se e senza ma la strada dell’elettrificazione dei trasporti.

Nei disegni delle Istituzioni comunitarie questa improvvisa accelerazione tecnologica dovrebbe stimolare l’innovazione e la reindustrializzazione, creando milioni di posti di lavoro nel continente. Eppure, qualcosa non torna.

Dal punto di vista prettamente manifatturiero, per esempio, l’auto elettrica ha un terzo delle componenti mobili soggette a usura rispetto a un’auto tradizionale. Parallelamente tutta la filiera della mobilità elettrica, dalla manutenzione al rifornimento, si contraddistingue per una bassissima intensità di lavoro. Perciò, anche immaginando di riuscire a catturare tutte le fasi produttive, non si riesce a capire come questa transizione potrebbe trasformarsi in una politica industriale che produce reddito e posti di lavoro.

Iper-semplificando, l’elettrificazione trasformerebbe la filiera dell’automotive in qualcosa di molto simile a quella dell’i-Phone.

Oltretutto queste caratteristiche, che sembrerebbero gli ingredienti fondamentali di una rivoluzione industriale, non si traducono in vantaggi competitivi dal punto di vista funzionale ed economico, anzi. Se paragoniamo le prestazioni di un veicolo a combustione interna con quelle di uno elettrico – pensiamo solo all’autonomia – la mobilità tradizionale risulta molto più performante. E se immaginiamo uno scenario in cui lo Stato dovrà controbilanciare l’ammanco di una quarantina di miliardi di euro di accise sui combustibili veicolari e le auto elettriche dovranno essere alimentate da energia low carbon, anche il vantaggio economico si trasforma in un gigantesco onere. Per di più, cerchiamo di tenere a mente che, vista la struttura urbanistica delle nostre città, il modello “pannelli sul tetto-punto di ricarica in garage” è appannaggio esclusivo dei più ricchi. Il parco circolante italiano si compone di circa 40 milioni di automobili, anche immaginando un ridimensionamento fisiologico c’è da chiedersi se la transizione verso la mobilità elettrica non coincida con la preclusione della mobilità privata alle classi meno abbienti.

Nei disegni delle Istituzioni comunitarie questa improvvisa accelerazione tecnologica dovrebbe stimolare l’innovazione e la reindustrializzazione, creando milioni di posti di lavoro nel continente. Eppure, qualcosa non torna

Non solo. L’idea di catturare tutte le fasi produttive di un simile modello di business può reggere sulla carta ma, nella realtà, risulta del tutto velleitaria. Guardando alle catene di approvvigionamento dei segmenti industriali coinvolti nella transizione verso la mobilità elettrica, infatti, emerge un convitato di pietra: Pechino. La Cina può mettere sul piatto il controllo delle catene di approvvigionamento dei materiali strategici (dal rame al litio passando per le terre rare), il mercato con la domanda più forte del mondo, un business environment molto più attraente di quello europeo e un costo dell’energia molto più contenuto, dato che non è vincolata da paletti stringenti. È chiaro che, dal punto di vista industriale, la transizione della “mobilità meccanica” alla “mobilità elettrica” penalizzerà l’Europa e premierà la Cina.

Accanto alle questioni economiche, sociali e strategiche ci sono, poi, quelle tecniche. La deep electrification, infatti, prevede quantomeno il raddoppio dei consumi elettrici, da inserire nel quadro della rapida decarbonizzazione del sistema energetico.

Come fare a garantire la domanda di elettricità per 8.760 ore l’anno con degli impianti che attualmente in Italia producono in media 1.400 ore l’anno (quelli fotovoltaici) e 2.000 ore l’anno (quelli eolici) rimane, però, un mistero.

I green advocate propongono di aggirare il problema attraverso l’overcapacity, cioè installando più potenza di quella necessaria a soddisfare il picco della domanda, così da compensare la scarsa produttività e l’intermittenza con il sovradimensionamento dell’infrastruttura energetica. D’altra parte, questa soluzione presuppone un drastico aumento dei costi della transizione ecologica e del consumo di suolo senza, in realtà, risolvere alcuni problemi strutturali delle due fonti energetiche (un solo esempio: a fronte di fenomeni metereologici avversi particolarmente estesi a livello geografico l’overcapacity non garantisce affatto l’approvvigionamento energetico).

Questa prospettiva si scontra con la sostenibilità politica dei grandi impianti e con la struttura della rete italiana, che deve alimentare un consumo diffuso e capillare. Di nuovo, ci scontriamo con un problema molto pratico: in che modo dovremmo soddisfare questa gigantesca domanda di elettricità, visti i vincoli che vengono imposti al settore energetico?

Le compagnie elettriche, invece, suggeriscono di usare le batterie delle auto come strumenti di modulazione della domanda. Immaginando uno scenario in cui milioni di veicoli elettrici sono collegati alla rete, effettivamente, le batterie delle auto potrebbero trasformarsi in uno strumento di bilanciamento. Anche in questo caso però ci si scontra con la realtà: questo tipo di architettura di rete, infatti, presupporrebbe che, oltre alla domanda, anche la produzione di elettricità sia diffusa. In un simile scenario però, di nuovo, aumenterebbero sia i costi, sia il consumo di suolo, dato che gli impianti di piccole dimensioni sono meno efficienti sia dal punto di vista economico che da quello energetico.

L’Agenzia Internazionale delle Energie Rinnovabili (IRENA), infine, scommette sulla scalabilità degli impianti: installando pale eoliche da 10+MW e costruendo parchi fotovoltaici da 1+GW la produttività aumenta mentre i costi e il consumo di suolo diminuiscono. Tuttavia, questa prospettiva si scontra con la sostenibilità politica dei grandi impianti e con la struttura della rete italiana, che deve alimentare un consumo diffuso e capillare.

Di nuovo, ci scontriamo con un problema molto pratico: in che modo dovremmo soddisfare questa gigantesca domanda di elettricità, visti i vincoli che vengono imposti al settore energetico?

In conclusione, la transizione verso la mobilità elettrica sulla carta funziona ma, nella realtà, rimane ancora una grossa incognita.