Muoversi 4 2021
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LA DECARBONIZZAZIONE NON È UNO SLOGAN, BISOGNA STARE CON I PIEDI PER TERRA

LA DECARBONIZZAZIONE NON È UNO SLOGAN, BISOGNA STARE CON I PIEDI PER TERRA

intervista a Marco Bentivogli


Marco Bentivogli

Coordinatore Base Italia

La transizione implica un ripensamento delle filiere industriali e in generale del mondo del lavoro. Cosa pensa ci sia da fare per accompagnare al meglio questo passaggio?

La pandemia ha già fatto vedere la vulnerabilità delle filiere, non solo rispetto alla loro lunghezza. Qualcuno ha iniziato a parlare di globalizzazione regionale: in realtà, il tema vero è la sostenibilità delle filiere. C’è la necessità di dare trasparenza e sostenibilità. Gli obiettivi previsti per la transizione ecologica e ambientale sicuramente sono un altro elemento di sfida e di accelerazione che va assolutamente accompagnata. E, per quanto riguarda l’energia, credo ci sia una attenzione eccessiva al tema della mobilità: tra un terzo e metà dell’energia mondiale è impiegata per la climatizzazione degli immobili, per cui questo è un problema ancor più grande di quante auto euro 6 o di quante auto elettriche o ibride circolino per strada. Secondo, c’è un problema anche di allevamenti e agricoltura intensiva che rappresentano da soli più del 10% delle emissioni.

Dobbiamo ricordarci che la manifattura è quella che ha tenuto in piedi il nostro paese in questa fase. La cosa che non mi convince è usare come slogan la “decarbonizzazione” senza piste concrete. Adesso possiamo ragionare di idrogeno, ma l’idrogeno diventerà industrializzabile, per esempio nel settore siderurgico, dopo il 2026. Un conto è mettersi al centro della transizione, un conto è assecondare le cose più assurde che si stanno dicendo e facendo su questo argomento

Per gli obiettivi che riguardano il “Fit for 55”, direi che l’Europa fa bene a dare un ritmo rapido alla transizione. Ma pongo due problemi. Il primo è che la percentuale sulle emissioni globali dell’Europa è sempre più marginale, per cui servono politiche di respiro globale, altrimenti i risultati non sono significativi. Il secondo è che la transizione deve essere un percorso: bisogna fare in modo che si accompagni attraverso traiettorie e politiche industriali che non siano punitive per quel che riguarda l’occupazione e la dimensione sociale. C’è una vignetta che dice: “Prossimo summit mondiale”, in cui si vedono jet da tutto il mondo, che vanno verso il summit mondiale e un operaio dice a un altro “Questi signori si riuniscono per dire che la mia Panda inquina”. Il tema è, purtroppo, abbastanza vero. In Italia, ad esempio, abbiamo un parco auto vecchio (il 40% sono tra euro 0 ed Euro 4), e sarebbe importante un ricambio tenendo anche conto delle ultime motorizzazioni Euro 6D. Allora bisogna affrontare i temi delle transizioni accompagnando le persone. Nel recente incontro con Greta Thunberg, Draghi ha detto che bisogna convincere le persone. Non basta convincerle, bisogna accompagnarle.

Mi viene sempre in mente quella battuta che dice “ciascuno di noi vuole tornare allo stato di natura, ma nessuno di noi vuole andarci a piedi”. È una illusione tutta italiana pensare che la transizione sia indolore. Io sono d’accordo con chi dice che l’economia ambientale darà tantissimi posti di lavoro, ma non casca dal cielo.

La crescita e il trasferimento di conoscenze e competenze nelle filiere industriali e del lavoro è un patrimonio storico del Paese. Ciò vale anche e soprattutto per il downstream petrolifero che è un presidio per la sicurezza energetica del Paese. Un settore a rischio visto l’assenza della consapevolezza, da parte della politica, del suo ruolo strategico. Come evitare di perdere una delle ultime filiere industriali rimaste nel Paese?

Innanzitutto dobbiamo ricordarci che la manifattura è quella che ha tenuto in piedi il nostro paese in questa fase. La cosa che non mi convince è usare come slogan la “decarbonizzazione” senza piste concrete. Adesso possiamo ragionare di idrogeno, ma l’idrogeno diventerà industrializzabile, per esempio nel settore siderurgico, dopo il 2026, così almeno dicono i progetti più interessanti come Hybrit. Bisogna però saper dire alle lavoratrici e ai lavoratori che cosa è davvero l’economia italiana: il 33% di esportazioni sono meccanica strumentale, bisogna dire cosa si fa nel frattempo e cosa si fa da qui al 2026 che è insieme vicino e lontano. Un conto è mettersi al centro della transizione, un conto è assecondare le cose più assurde che si stanno dicendo e facendo su questo argomento.

Accelerare, come fa l’Europa, sulla transizione a suo parere aiuta o mette a rischio le nostre filiere e la nostra occupazione?

Sono d’accordo che servano delle forzature: noi dal punto di vista delle emissioni, come pianeta, siamo molto in ritardo. In Europa stiamo spingendo molto, ma bisogna evitare il masochismo, cioè cancellare competenze, capacità industriali e non curare la loro evoluzione. So che è molto criticato, ma apprezzo l’approccio del ministro Cingolani che adesso deve trovare un livello di concretezza sulle policy.

Per usare una citazione un po’ rétro, Mao Zedong diceva “i secchi si spostano da dove sono”, cioè la realtà è una condizione data. Non possiamo immaginare che la realtà sia quella che sogniamo. Dobbiamo partire dalla realtà e da lì dobbiamo spostarci verso obiettivi di sostenibilità. Da questo punto di vista è chiaro che il timing lo fissa, per la forza del suo apparato industriale, la Germania. I tedeschi con leggerezza hanno detto “noi dimezzeremo gli occupati delle nostre industrie automotive”. Loro anche per la dimensione delle loro imprese hanno una grande capacità di compensazione del vecchio che muore con il nuovo che nasce. Hanno strutture come il Max Planck Institute per la ricerca di base, hanno Fraunhofer per la ricerca applicata e l’innovazione, hanno strutture che accompagnano anche la trasformazione di impresa a livello evolutivo, di innovazione, di trasformazione e diversificazione che consentiranno di compensare l’occupazione che si perde con quella che si genera nel nuovo ecosistema della mobilità. Noi in Italia non abbiamo questo. Mi viene sempre in mente quella battuta che dice “ciascuno di noi vuole tornare allo stato di natura, ma nessuno di noi vuole andarci a piedi”. È una illusione tutta italiana pensare che la transizione sia indolore. Io sono d’accordo con chi dice che l’economia ambientale darà tantissimi posti di lavoro, ma non casca dal cielo. Faccio un esempio diretto: le raffinerie. Immaginiamo un futuro per tutte queste grandi strutture industriali, immaginiamo la loro trasformazione. Ecco, qui ci sono progetti interessanti, ma non si passa da trattare carburanti fossili a trattare margherite. Credo che queste siano piste che vanno sostenute politicamente, vanno spiegate.

Cosa servirebbe secondo lei per guidare la transizione dentro prospettive di tenuta e crescita di sviluppo e lavoro?

Il tema fondamentale è abbandonare il velleitarismo. Dire, come fece l’attuale Ministro degli Esteri, che in fondo le infrastrutture non servono più perché con la manifattura additiva ognuno si costruirà gli oggetti che gli servono a casa, è una un’idea macchiettistica che non ha nulla a che fare con la realtà, ed è molto pericolosa. Io sono un sostenitore delle innovazioni (dallo smart working all’industrial smart working) ma so che anche l’economia digitale per ancora molti decenni profumerà in qualche modo di olio motore, olio di taglio anche perché l’energia elettrica oggi è prodotta spesso con fonti fossili. Noi dobbiamo puntare alle rinnovabili, ma bisogna arrivarci davvero. Non si può solo declamarle perché altrimenti nel velleitarismo rischiamo di perdere terreno proprio sugli obiettivi ambientali.

Quando rendere sostenibile un impianto inquinante – guardate i SIN, siti di interesse nazionale – farlo con l’impresa in marcia è molto più semplice e realistico che farlo chiudendo l’impresa. E infatti così si evita Bagnoli. La stessa cosa bisogna fare per portare tutta l’economia dei combustibili fossili verso l’innovazione, altrimenti faremo solo chiacchiere.