Muoversi 1 2022
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UNA STORIA LUNGA OLTRE 100 ANNI DA CUI C’È TUTTO DA IMPARARE

UNA STORIA LUNGA OLTRE 100 ANNI

DA CUI C’È TUTTO DA IMPARARE

di Giorgio Carlevaro

In questa nuova puntata della Storia del Petrolio, Giorgio Carlevaro ripercorre un’epopea lunga oltre un secolo, fatta di progressi e innovazioni tecnologiche senza le quali non si sarebbe andati, come si usa dire, da nessuna parte. Una storia che ha ancora molto da insegnarci.

Giorgio Carlevaro

Direttore emerito

Staffetta Quotidiana

La fine dei fossili a scadenza più o meno ravvicinata, in quanto fonti di energia che non sarebbero più sostenibili e messe quindi al bando lasciandole sotto terra, postula la tesi che da qui al 2030 o al 2050 l’industria carbonifera, quella del gas e quella del petrolio non saranno in grado di registrare, ovviamente separatamente, innovazioni tecnologiche nei modi di estrarli, di lavorarli e di consumarli simili a quelle realizzate negli ultimi 100 anni. Tali da smentire gli scenari apocalittici che vengono diffusi. Un po’ come è accaduto con il peak oil di cui si parla almeno da cinquant’anni e, nonostante l’aumento dei consumi di questa fonte a livello mondiale, finora nessuno l’ha visto. Grazie alla rivoluzione informatica che ha consentito di moltiplicare e migliorare le conoscenze geologiche.

E questo proprio perché la storia di queste fonti, che risale all’età della pietra o, comunque, alla rivoluzione industriale, cioè a più di due secoli fa, smentisce simili assunti. Senza progressi e innovazioni tecnologiche non si sarebbe andati, come si usa dire, da nessuna parte. E saremmo ancora alle carrozze a cavalli, alla navigazione a vela, al lume di candela e alle stufe a legna. Che, ripensandoci, non era proprio un bel vivere. Come accade del resto ancora oggi alla gente che vive in molti paesi poveri e sottosviluppati 

Cosa è avvenuto nel frattempo? È accaduto di tutto e di più e ce ne siamo dimenticati.  Al punto che dovendo affrontare la crisi climatica causata dalle emissioni delle fonti fossili la cosa migliore da fare è appunto quella di metterle al bando sic et simpliciter e di non usarle più. Che problema c’è a farne a meno? Lo vediamo in questi mesi con il caro-energia. Non sarebbe più semplice trovare invece il modo di renderle più sostenibili sotto tutti i profili? Imparando appunto dalla storia che ci dice, tra l’altro, proprio a proposito di sostenibilità, che le fonti fossili, in particolare il petrolio e il gas, di strada in tanti decenni sul mercato, ne hanno fatta parecchia.

È il caso sicuramente della storia del petrolio. Partendo da quella di una società che è presente in Italia dal maggio 1891, cioè da 130 anni, l’unica a vantare un record del genere e che ha il merito di avere tenuto memoria della sua storia, anno dopo anno, in una brochure che viene regolarmente aggiornata. Parliamo di quella che oggi conosciamo come Esso Italiana e che allora venne costituita a Venezia come Società Italo Americana pel Petrolio (Siap) avendo come scopo il commercio del petrolio per illuminazione, per riscaldamento e per usi di cucina.  Nulla che lasciasse immaginare quello che è poi accaduto. Una delle prime affiliate della Standard Oil, le cui origini risalgono a sua volta al 1870 quando John D. Rockfeller costituisce la Standard Oil Company (Ohio). Dieci anni dopo la prima trivellazione petrolifera del colonnello Drake a Titusville nel nord della Pennsylvania (1859), da cui è partita la corsa all’ “oro nero”. E dieci anni prima della nascita a Torino nel 1899 della Fiat cui seguiranno all’inizio del Novecento le prime richieste di benzina per motori a scoppio: con gli automobilisti che diventano anche loro clienti a tutti gli effetti dell’industria petrolifera.

Con la necessità di creare nuovi depositi dopo il primo costituito a Porto Marghera nel 1892. Avveniristico parlare di autobotti (le prime arriveranno nel 1925), per i carri cisterna ci si accontenta del “tiro a due cavalli”. Nasce anche l’industria aeronautica, occorrono benzine speciali e la società di cui parliamo già nel 1909 è pronta a commercializzarle. Non bastano le bettoline a vela per importare i prodotti e nel 1911 (sono passati vent’anni) vengono commissionate ai cantieri di Genova le prime due petroliere. Passata la guerra, nel 1920 l’attività si diversifica assumendo una partecipazione nella raffineria di Trieste che lavora il greggio estratto dai pozzi della Galizia e nel 1922 (sono passati trent’anni e la sede viene trasferita da Venezia a Genova) è la prima ad adottare in Italia a titolo sperimentale i primi distributori automatici stradali (il modello T 308 con il caratteristico collo lungo). Si affinano i prodotti e nel 1925 inizia la vendita della benzina speciale Lampo Avio e del lubrificante Olio Avio, progenitori dello Standard Motor Oil, del nuovo supercarburante Esso e dell’Essolube Motor Oil. Con la gamma dei prodotti che comprende anche l’olio combustibile, il bitume e addirittura l’insetticida Flit. Con l’attività che si estende alla ricerca e all’estrazione del greggio (1927) e alla produzione di grassi e lubrificanti (1928). Sul mercato dal 1901 la società deve fare i conti con la presenza della Mobil, dal 1912 della Shell (Nafta) e dal 1926 dell’Agip (controllata dallo Stato). Stimoli a migliorare la qualità dei prodotti e il servizio reso alla clientela per far fronte all’accresciuta concorrenza.

Sulle strade dagli anni ‘30 accanto ai distributori automatici, molti appoggiati a drogherie e altri esercizi commerciali si diffondono i chioschi a pagoda, progenitori delle stazioni di servizio che fanno in tempo a fare la loro comparsa prima dell’inizio della guerra. E intanto nel 1932 (sono passati 40 anni) la società è la prima in Italia ad adottare la definizione del numero di ottano nel carburante, poi migliorato nel 1938 con l’aggiunta di additivi. E arriviamo così al 1941 quando (sono passati 50 anni) anche questa società, come le altre società straniere, subisce il sequestro in quanto considerata industria strategica. Fino al 1946, quando inizia l’opera di ricostruzione degli impianti danneggiati e/o distrutti dagli eventi bellici, tra cui la raffineria di Trieste.  Con l’attività di vendita dei prodotti che riparte dal giugno del 1948 quando viene immesso sul mercato l’Esso Extra, il primo supercarburante del dopoguerra. Per far fronte al crescente fabbisogno di prodotti ora la società può contare anche sulle raffinerie di Bari e Livorno di proprietà della Stanic partecipata su base paritetica dalla Standard Oil (New Jersey) e dall’Anic.

Nel 1950, alla vigilia di compiere 60 anni, la società cambia nome in Esso Standard Italiana. A Trieste viene prodotto il primo carburante per aerei a reazione. Nel 1961 (sono passati 70 anni) mentre la gamma dei prodotti si allarga all’Esso Gas e al nuovo gasolio riscaldamento Esso Red, destinati principalmente all’uso domestico e negli impianti di riscaldamento centralizzato promossi dalla società in varie città. Sviluppi importanti si registrano anche nel settore della raffinazione con l’acquisto da Angelo Moratti della raffineria Rasiom in Sicilia, dove nel 1964 entrerà in funzione un impianto per la produzione di oli lubrificanti che nel 1971 (sono passati 80 anni) diventerà il più grande d’Europa, e una quota del 60% nella raffineria Sarpom di Trecate in Nord Italia, vicino alle aree di maggiore assorbimento e consumo dei prodotti petroliferi.

Si avvicinano gli anni ’70, quelli che passeranno alla storia come “gli anni d’oro del petrolio”, addirittura “l’Età del petrolio”, e sul mercato accanto ai marchi Agip, Esso, Mobil e Shell, già ricordati, ci sono quelli di Amoco, Api, BP, Caltex, Chevron, Erg, Kupit, Repsol, Tamoil e Total, in un via vai a cui non è semplice star dietro (v. articolo su Muoversi n. 2/2021). A cui fanno seguito gli anni della crisi quando, dopo la guerra del Kippur dell’ottobre 1973, si comincia a parlare di un nuovo modello di sviluppo. Con i primi segnali di stop al tutto petrolio, con la chiusura delle raffinerie meno efficienti e l’autoriduzione dei punti vendita carburanti. Anche per la società di cui parliamo ciò significa porre mano, tra il 1976 e il 1981 (sono passati 90 anni), al primo programma di razionalizzazione delle rete carburanti che contava allora 4.268 punti vendita su un totale di circa 40.000 (oggi sono scesi a poco più di 22.000). A cui, per quel che riguarda la razionalizzazione del sistema di raffinazione, seguirà nel 1982 l’uscita dagli impianti di Livorno e Bari. Decisioni più o meno analoghe che vengono prese anche da altre compagnie. Fino a vere e proprie decisioni di disimpegno e di uscita dal mercato. Non della Esso, che nel 1991 festeggerà il primo secolo di attività in Italia. Dopo aver introdotto per prima sul mercato a partire dal 1985 il sistema di vendita self service post-pay e proseguito nei processi di automatizzazione e di informatizzazione degli impianti con tecnologie di avanguardia. E procedendo altresì nel miglioramento qualitativo dei prodotti attraverso la loro desolforazione catalitica. Con l’inaugurazione nel 1989 presso la raffineria Rasiom di un impianto per la produzione di benzina senza piombo commercializzata a partire dal 1992. Obiettivo: abbattere le polveri negli impianti di cracking catalitico e produrre carburanti a bassissimo tenore di zolfo. A prezzo di massicci investimenti nelle raffinerie. Introducendo tra il 1996 e il 2005 (doppiato il capo dei 110 anni) una nuova generazione di gasoli senza zolfo nel rispetto dei più severi standard di emissione, un bitume speciale adatto all’alta velocità, una nuova linea di lubrificanti per il trasporto pesante.  Con una partecipazione del 25% tra il 2003 e il 2011 nel progetto Tempa Rossa per la ricerca di greggio in Basilicata, poi ceduta ad altro operatore. Mentre va in porto tra il 2005 e il 2009 la realizzazione, insieme alla Qatar Petroleum, di un terminale offshore di Gnl (gas naturale liquefatto) in Adriatico, collegato alla rete nazionale del metano della Snam. Superato nel 2016 il traguardo dei 125 anni, arrivano due notizie che per alcuni osservatori preluderebbero all’uscita dall’Italia anche di questa compagnia: la vendita nel 2018 della raffineria di Augusta in Sicilia alla Sonatrach algerina, insieme ai depositi di Palermo e Napoli, e la cessione tra il 2012 e il 2017 della proprietà della rete carburanti a rivenditori indipendenti sulla base del cosiddetto “modello grossista”. Grazie al quale la società continua ad innalzare sui punti vendita il proprio marchio, a fornire i suoi carburanti e i suoi lubrificanti di alta qualità e a garantire l’utilizzo delle sue carte carburanti. E per finire, dal 2019 tutti i suoi carburanti, anche quelli tradizionali, contengono gli additivi speciali Sinergy che, oltre a proteggere il motore e a migliorare la sua performance, riducono i consumi e le emissioni. E intanto nel maggio scorso, a dispetto dei cattivi profeti, ha superato il traguardo dei 130 anni.

Questo racconto, per tanti aspetti avvincente e che mutatis mutandis vale anche per altri operatori presenti sul mercato a cominciare da Eni Agip che quest’anno ha superato il traguardo dei 95 anni, cosa ci insegna? Che per sopravvivere e far sopravvivere il petrolio bisogna darsi da fare, anticipare le nuove esigenze dei consumatori, migliorare senza mai fermarsi la qualità dei prodotti, anche sotto il profilo ambientale. Puntando su tutte le opzioni disponibili. In base al principio della neutralità tecnologica, che Claudio Spinaci, presidente di Unem non perde occasione di sostenere. Non a caso nella relazione annuale sulla qualità dei combustibili per autotrazione, prodotti, importati e commercializzati, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra) conferma che “gli standard di qualità dei prodotti oggi in commercio, sono il risultato di un lungo processo di sviluppo tecnologico e di una serie di interventi normativi che si sono susseguiti negli anni al fine di garantire la tutela della salute e dell’ambiente”. A conferma che in questi anni l’industria petrolifera non è rimasta all’età della pietra,

Con un racconto parallelo che riguarda a monte la ricerca e l’estrazione degli idrocarburi e la de-carbonizzazione degli impianti di raffinazione. Un racconto che insegna tra l’altro che gli eventi dirompenti che cambiano il corso del futuro sono spesso inattesi e raramente previsti.

Tipico e, se vogliamo, eccezionale il caso dello Shale Gas che, a partire dal 2008, ha rivoluzionato il panorama energetico degli Stati Uniti da importatore a esportatore di gas. Un caso in cui l’impiego di una tecnologia inedita, la fratturazione idraulica combinata con la perforazione orizzontale, ha consentito non solo di rendere meno costosa la ricerca e l’estrazione di gas ma anche l’accesso a vaste formazioni minerarie prima proibitive e indisponibili. 

Quanto alla normale innovazione tecnologica registrata nella fase mineraria dell’industria petrolifera, è interessante il racconto che ne fa Alberto Clô nella seconda edizione del gennaio 2000 del suo libro “Economia e Politica del petrolio”. Quando, dopo il contro-shock del 1986 che aveva provocato il crollo degli investimenti necessari a preservare ed espandere la capacità produttiva, l’innovazione tecnologica ha consentito di fronteggiare positivamente il calo dei prezzi; di rendere strutturale lo stesso calo e di allargare il grado di accessibilità tecnica ed economica delle riserve disponibili.

Tre le “famiglie”, come Clô le definisce, di innovazioni: la prima, la più straordinaria, sostanzialmente riconducibile alla rivoluzione informatica nell’attività sismica, che ha consentito di moltiplicare e migliorare in modo esponenziale le conoscenze geologiche dei giacimenti; la seconda nelle apparecchiature e nelle tecniche di perforazione; la terza nelle tecniche di pompaggio e nel loro grande potenziale ai fini delle scoperte nei mari profondi. Ottenendo con molto minor sforzo risultati ben maggiori per quel che riguarda la capacità di identificare localizzazione, profilo e dimensione dei giacimenti scoperti; l’accessibilità alle riserve; la riduzione del tempo delle operazioni minerarie; l’ottimizzazione della complessiva curva di sfruttamento dei giacimenti. Con il risultato di poter dedicare maggior tempo e risorse a ridurre l’impatto ambientale della ricerca e dell’estrazione del petrolio del gas.

Venendo invece all’assetto attuale della raffinazione italiana, anch’esso, grazie a anni e anni di innovazioni, oggi può vantare un altissimo patrimonio tecnologico e di competenze e standard HSE elevatissimi. Che significa, come spiega Unem nel commento inviato a fine ottobre alle commissioni Ambiente di Camera e Senato sulla proposta di Piano per la Transizione Ecologica, “limiti emissivi dei processi e dei prodotti tra i più bassi del mondo con progressi importanti negli ultimi decenni”. Il che non toglie che il settore della raffinazione, fortemente energivoro, dovrà affrontare una profonda trasformazione del proprio assetto industriale per de-carbonizzare i propri processi ed i propri prodotti.  E che la protezione delle raffinerie dal carbon leakage, dato il costo della CO2, sarà fondamentale per evitare pericolose delocalizzazioni. Chiarito il fatto, rileva sempre Unem, che l’obiettivo primario della transizione è la de-carbonizzazione dei consumi e non la loro elettrificazione. E che per raggiungere gli obiettivi europei del Piano è necessario il concorso di tutte le tecnologie disponibili, rispettando sempre il principio della neutralità. Introducendo una metodologia che valuti la CO2 emessa sull’intero ciclo di vita dei prodotti e non solo allo scarico.

Detto ciò, nella logica del miglioramento tecnologico il settore della raffinazione è disponibile a continuare a modificare i propri processi per rispondere all’introduzione graduale di norme ancora più restrittive sullo zolfo. E per favorire la produzione di biocarburanti e di combustibili liquidi a basse e nulle emissioni di carbonio (low carbon fuels). Ma sollecitando nello stesso tempo anche misure che in grado di accelerare il ricambio con veicoli più recenti del parco automobilistico più vecchio ed inquinante. Basti pensare che oggi un’auto “Euro 6” emette il 95% in meno di NOx rispetto ad una “Euro 0” e il 96% in meno di PM rispetto ad una “Euro 1”. E questo a prescindere del fatto che a scadenza più o meno ravvicinata, 2035 o giù di lì, arrivi lo stop alla vendita di auto a benzina e a gasolio. Perché chi ce l’ha continuerà ad avere bisogno di questi due carburanti. 

Un processo di de-carbonizzazione che si avvantaggerà dell’ degli impianti di raffinazione perseguito nei passati decenni a prezzo di ingenti investimenti. Teso a conseguire un duplice obiettivo: accrescere da una parte l’impiego dei più abbondanti e meno costosi greggi pesanti e dall’altra ad accrescere le rese di lavorazione delle più pregiate e sempre più richieste frazioni medio-leggere (benzine, gasoli, nafta e jet fuel), estromettendo le frazioni pesanti (tra cui l’olio combustibile denso), un tempo dominanti nelle rese di raffinazione.

Oggi l’obiettivo è quello di aumentare le rese di biocarburanti tradizionali ottenuti da oli vegetali, di biocarburanti avanzati ottenuti da materiali di scarto di origine organica, di carburanti riciclati ottenuti da rifiuti indifferenziati e dal riutilizzo di rifiuti plastici e di carburanti ottenuti dalla sintesi di idrogeno rinnovabile e CO2 ricavata dall’atmosfera o da sorgenti concentrate. Carburanti che rispetto al corrispondente prodotto fossile determinano risparmi di CO2 che vanno dal 40 al 90% e rispetto ad altre tecnologie sono utilizzabili su tutti i mezzi di trasporto, sono impiegabili da subito nell’attuale parco circolante, consentono lo sviluppo dei motori a combustione interna nel lungo termine e, per finire, aumentano la sicurezza energetica del Paese.

Obiettivi, che tenuto conto proprio dei progressi e dei successi conseguiti in passato, tutto lascia pensare che potranno essere realizzati. Importante in questo quadro, rileva Unem, quantificare meglio il contributo all’inquinamento dei diversi settori dal trasporto al civile, all’industria e agli altri settori. Tenuto conto per esempio che studi recenti sulla qualità dell’aria nelle città evidenziano un peso decrescente del traffico grazie appunto all’ingresso nel parco circolante di vetture e veicoli commerciali con emissioni prossime allo zero.
A conferma del fatto che, al di là della scomparsa più o meno ravvicinata delle fonti fossili, sono altri gli obiettivi e le misure per ridurre l’inquinamento su cui, a conti fatti, andrebbe concentrata di più l’attenzione.